Benvenuti nel mio Blog!
Un diario personale dove cercherò di non farvi trovare solo gradi e prestazioni sterili ma emozioni legate alle salite, paure condivise con amici, strette di mano, abbracci, racconti semplici e quant'altro ci consenta di sognare...

Prime esperienze



Venerocolo

Tutto iniziò un bel giorno di agosto del 1980; allora avevo 8 anni e con la famiglia passavo intere estati dagli zii all’Aprica. Le giornate trascorrevano tranquille tra i prati e i mirtilli; solo qualche volta accompagnavo papà a fare funghi, quando i “posti” non erano pericolosi.
Ricordo con piacere le lunghe camminate nei boschi; non che adesso sia tutto cambiato ma allora di funghi se ne trovavano a quintali…
Un giorno papà mi propose di fare una lunga camminata, dall’Aprica al Passo del Venerocolo e ritorno; per me sarebbe stata la prima volta, non avevo mai fatto camminate così lunghe.
Partimmo di mattina a buon ora e piano piano raggiungemmo la Malga Magnolta attraverso boschi incantevoli, dove oggi trovano posto le piste da sci. Una prima fermata era prevista alla baita dei guardiacaccia, un luogo stupendo che domina, quasi seicento metri più sopra, tutta la valle di Belviso. Da qui parte il lungo sentiero che, quasi tutto a mezza costa e con brevi saliscendi, percorre l’ampio vallone di Belviso sul versante destro idrografico a quasi 2000 metri di quota. Io ero felicissimo; per la prima volta stavo per compiere un giro in quota in mezzo alla natura incontaminata! Mi ricordo enormi prati pieni di cardi, pascoli zeppi di mucche e sguardi attenti di camosci che dall’alto ci osservavano…

Dopo una camminata lunghissima di quasi cinque ore raggiungemmo la meta prefissata: riposo, sole e cibo ci aspettavano ma non bisognava fermarsi troppo perché la strada del ritorno era ancora lunga!
Non ricordo con precisione l’ora di ritorno; ai tempi il cellulare non esisteva e la mamma era in apprensione. Arrivati in casa, dopo circa 12 ore di cammino, si precipitò verso di me che ero distrutto, pensando che la voglia di camminare mi sarebbe passata per sempre! “non sei stanco?” mi disse;“che bello mamma” risposi. Era solo l’inizio…


Adamello: primo amore

Le estati le trascorrevo sempre all’Aprica; dopo quell’escursione, non ricordo più le volte che tornai distrutto ma felice…
Passavo le mie giornate tra i compiti e i giri nel bosco, a volte con papà a volte solo. Un giorno, salendo a fare mirtilli al Palabione pestai per caso un nido di api; in poco tempo fui invaso dallo sciame che mi divorò completamente il corpo, mentre io urlante saltavo i fossi…
Un bel giorno di agosto un amico di famiglia in vacanza all’Aprica invitò mio padre ad unirsi a lui e altre sei o sette persone per salire l’Adamello. Mi ricordo che papà preparava lo zaino meticolosamente mentre io, piangente, lo imploravo di portarmi con lui.
Dopo lunghi piagnistei ottenni la possibilità di andare con loro: che emozione! Potevo salire una montagna alta, perdipiù quella che vedevo tutte le sere colorata di rosso dal tramonto del sole…
Ero la mascotte del gruppo, sia per l’età che per l’esperienza; avevo solo tredici anni ma qualche migliaio di metri di dislivello correndo tra i prati e una grande forza interiore!!
Tra noi, anche un prete e due ragazze sui 25 anni.
La salita al rifugio Garibaldi fu eterna, compensata dall’abbondante cena e dallo stupendo tramonto; dopo cena, due preghiere e… a nanna.
La mattina di buon ora partenza; dopo qualche ora di cammino e delle rocce attrezzate con corde fisse, dove procedemmo legati, raggiungemmo il passo Brizio. Lo spettacolo fu incantevole! Davanti a me l’immensa distesa del Pian di Neve, teatro di lunghe battaglie nella prima guerra mondiale.
Tutt’intorno al passo c’erano ancora i resti di catapecchie di legno e filo spinato.
Dopo qualche carota e un po’ di tè ripartimmo salendo la cresta del Corno Bianco; i miei compagni di salita erano contenti nel vedermi procedere spedito e con tanta enfasi…
Tra il sole e la nebbia raggiungemmo le rocce finali e, in breve, la croce di vetta. La gioia per me fu immensa !! Che bella montagna e, soprattutto, che alta !
Scrissi il mio nome sul libro di vetta insieme a quello di migliaia di altri alpinisti, cercando quello di mia madre che circa vent’anni prima era stata sulla stessa vetta.
Il ritorno è cancellato: mi ricordo solo una lunga e interminabile discesa fino alle macchine a Malga Caldea. La felicità, però, è rimasta! 


Il primo “Quattromila”


Il 1986 mi vede partecipare alla gita organizzata dal CAI Ponte S. Pietro al Gran Paradiso.
Il venerdì sera nella piccola sede del paese definimmo con i capigita le ultime formalità e, il sabato mattina, partimmo con un grosso pullman di circa 50 persone.
Il tempo era brutto, pioveva e tirava un forte vento. Al pomeriggio, una schiarita ci consentì di salire al Rif. Vitt. Emanuele. Il rifugio era pieno all’inverosimile; eravamo stipati come topi e costretti a dividere lo spazio per una persona in due!
La notte il tempo peggiorò e nevicò parecchio. Il vento sulla cupola del rifugio ululava ininterrottamente. Al mattino eravamo indecisi sul da farsi; qualcuno rinunciò a causa della notte insonne, io e papà partimmo insieme a un gruppo di 4-5 persone. Non potevamo rinunciare così! Salimmo piano sprofondando nella neve fresca della notte fino alle ginocchia e, a poco a poco, raggiungemmo la famigerata schiena di mulo. Qui fummo investiti da un vento freddissimo; tentammo invano di continuare la salita ma, a circa 3800m, desistemmo. Io ero esausto, anche a causa del freddo intenso e dell’abbigliamento inadeguato; papà forse si sentì anche peggio in quanto, lo avremmo saputo dopo, risentì di un forte innalzamento di pressione arteriosa.
Demotivati ci fermammo su una roccia e ci concedemmo uno spuntino, accompagnati da due corvi che avevano trovato qualcuno che li sfamava.
Verso l’ora di pranzo raggiungemmo il rifugio e, insieme agli altri partecipanti, iniziammo la discesa verso Pont Valsavaranche immersi nella calura estiva.
Con le pive nel sacco per non essere riusciti a salire in vetta ritornammo a casa, pensando alla prossima gita e alle grandi emozioni che avrebbe potuto riservarci.



Gran Paradiso 1986


Monte Disgrazia: una caduta banale.


Monte Disgrazia dal Rif. Ponti - 1987
Settembre 1997. Dopo un’estate abbastanza attiva – avevo salito la Punta San Matteo nella nebbia e il Pizzo Cassandra – mi iscrissi con papà all’ennesima gita del CAI. Ormai eravamo un bel gruppo affiatato; io ero ben visto da tutti, essendo un giovincello con tanta voglia di camminare…
Ero l’unico giovane; a me non creava grossi problemi, anche se la presenza di qualche altro ragazzo mi avrebbe permesso di sciogliermi un poco di più.
Nel pomeriggio del sabato raggiungemmo con la vettura la piana di Predarossa e, dopo due ore di cammino, il rifugio Ponti che domina la parete sud del monte Disgrazia.
La visione era fantastica! Da qui la montagna si presentava con tutta la sua maestà e, sinceramente, non sembrva come le altre salite fin d’ora effettuate.
Solita cena, solita sveglia, colazione e partenza di buon ora; quel giorno c’era anche Piero, l’unico del gruppo che arrampicava anche su roccia, da tutti ben considerato per le sue imprese. Per me era un supereroe come quelli dei fumetti: che bello sarebbe stato essere in cordata con lui, spirava fiducia!
La salita si svolse al meglio; una giornata stupenda ci vide camminare su creste ripide e affilate come un rasoio, dove per prudenza i più esperti fissarono delle corde. Alla nostra sinistra sprofondava la parete nord con degli scivoli di ghiaccio che facevano paura solo a vederli…
La vetta ci accolse tutti. Abbracci, foto di rito e discesa prudente.
Fino al colle, dove tutti decidemmo di togliere i ramponi in quanto la neve formava il fastidioso zoccolo; ed ecco che il pericolo era in agguato!
Non feci che cento metri di discesa quando, di colpo, scivolai su una lastra di ghiaccio che affiorava dalla neve ora più rada; senza avere il tempo di accorgermene, mi trovai a pancia in giù scivolando ad una velocità vertiginosa! Sentivo gli altri che mi gridavano di piantare la piccozza, provai varie volte ma inutilmente, scorticandomi tutte le dita delle mani…
Finalmente, un po’ per la presa della piccozza un po’ per fortuna (molta), mi fermai a poche decine di metri da un crepaccio, dopo aver fatto una scivolata di circa cento metri.
Restai appeso senza ramponi su ghiaccio vivo con la becca della piccozza piantata per pochi centimetri nel ghiaccio e con il  sangue che usciva da tutte le parti!
Piero scese verso di me ma, improvvisamente, lo vidi scivolare come avevo fatto io poco prima; lui, però, più esperto riescì a ritornare sulla neve senza problemi.
In balia del ghiaccio, venni tratto in salvo dal gruppo che, visto ciò che era successo, aveva rimesso i ramponi. Non ero scosso, non avevo avuto il tempo di capire quello che mi era successo…
Ero però pieno di tagli, sulle mani senza guanti e sulle ginocchia a causa dei pantaloni alla zuava… Raggiunsi la morena e senza problemi il rifugio da dove, dopo aver medicato i tagli, ripartii per casa con tutto il gruppo. Fu una giornata intensa, piena di emozioni ma anche di paura; una lezione che mi ricorderò per sempre…




Bufera sul Gran Zebrù


Lo scivolone sul Disgrazia non mi  fermò; anzi, pieno di voglia di riscattarmi per quel pasticcio che avevo combinato, decisi di salire il Gran Zebrù lungo la via normale.
Questa volta la cordata era famigliare: io e mio padre.
Organizzai per la prima volta tutto quanto da solo; prenotai il rifugio e organizzai la nostra “spedizione”.
L’estate stava finendo, le giornate si accorciavano ed erano più fresche.
Partimmo un pomeriggio da Aprica alla volta di Santa Caterina Valfurva; salendo la lunga strada che porta al Rifugio Forni, papà mi raccontò di queste grosse montagne che ci circondavano. Diceva che, fra tutte, il Gran Zebrù era la seconda per altezza ma la più bella. Quando raggiungemmo il Rifugio Forni restai sbalordito dalla grandezza del ghiacciaio che mi trovavo di fronte; era enorme. Cadeva con una seraccata a poche centinaia di metri dalle macchine ed, essendo settembre, era crepacciatissimo.
Senza distogliere lo sguardo da tutte quelle pareti, ci inoltrammo verso il rifugio Pizzini senza intravedere la nostra meta, chiusa com’era dalla nebbia.
Il tempo non prometteva bene; la mattina avremmo deciso il da farsi.
Partimmo di buon ora al buio, con la luce dell’unica pila frontale di papà. Io non possedevo ancora una frontale ma, con un po’ d’ingegno, mi ero adattato, fissando una torcia sulle racchette da sci! Seguimmo per un pezzo la strada e ci inoltrammo poi sul ghiacciaio molto crepacciato. Tutto d’un colpo albeggiò e davanti a noi si presentò l’enorme mole del Gran Zebrù, lasciandoci senza fiato, con quel suo ripidissimo scivolo di neve e ghiaccio che si abbassa fino a Solda.
Rimasi esterefatto; visto da sotto faceva quasi paura, era talmente grande che sembrava ti volesse schiacciare. La relazione, però, parlava chiaro, non era poi così impegnativo da questo versante…
A poco a poco ci portammo sotto quello che doveva essere il passaggio chiave della salita, il superamento del canale del Collo della Bottiglia, un canale di circa 200m che dal ghiacciaio conduce sulla cresta che da accesso al grande pendio sommitale.
Attaccammo le roccette a destra quando, tutto d’un colpo, ci trovammo avvolti dalla nebbia e, con lei, si scatenò la bufera; si mise a nevicare. Cercammo di salire ugualmente, convinti che fosse una cosa passeggera. Quando raggiungemmo il colle fummo letteralmente sbattuti da un vento furioso che sembrava volerci trascinare a valle. In queste condizioni la salita era impossibile. Bisognava rinunciare, scappare, scendere il prima possibile se non volevamo essere sbattuti giù dal vento o scivolare sulla neve che si stava accumulando…
Non avevo paura, era calmo, per la prima volta mi trovavo ad affrontare il maltempo così in alto; ero giovane e ancora poco esperto ma mi sentivo forte e sicuro. Con attenzione aiutai papà che sembrava più stanco e preoccupato di me. Raggiungemmo il ghiacciaio e, a passo spedito, girovagando in mezzo alla nebbia, scendemmo fino alla strada che ci riportò al rifugio Pizzini, sotto una fitta pioggia. Eravamo fradici ma felici!
L’impresa più importante era stata portata a termine, la discesa in mezzo al temporale! Impresa che mi allargò la mente, facendomi capire quanto sia facile passare da “un’allegra scampagnata” a una “discesa per la sopravvivenza”! 
La vetta la raggiunsi qualche anno dopo, sempre in mezzo alla bufera...



Gran Zebrù 1989


Allievi e istruttori corso ARG2 1989

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