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Un diario personale dove cercherò di non farvi trovare solo gradi e prestazioni sterili ma emozioni legate alle salite, paure condivise con amici, strette di mano, abbracci, racconti semplici e quant'altro ci consenta di sognare...

Ascolta... il deserto ti parla



Wadi Rum - panorama dal Jebel Burdah
Aprile 2008
Una fredda sera di dicembre, già si pensava a quali salite si sarebbero potute fare nell’estate seguente.
“Ritorniamo in Yosemite ?”
“Perché non proviamo qualcosa di diverso, al caldo…la Giordania, deserto del Wadi Rum ?”
“D’accordo, vediamo di trovare qualcun altro e organizziamo…”
Cominciamo a spargere la voce in cerca di compagni d’avventura e cerchiamo di reperire informazioni. Leggiamo dall’annuario CAI Bergamo del 1984 dell’esperienza vissuta da alcuni nostri soci e chiediamo ad alcuni amici: le notizie che reperiamo non sono molto confortanti riguardo la qualità della roccia e lo stato della chiodatura. L’unica guida del posto è una riedizione della famosa “Trek & climb in Wadi Rum” di A. Howard, arrampicatore inglese che con i suoi compatrioti fu tra i primi a visitare ed esplorare la zona, altre informazione le otteniamo da vari articoli sulle riviste. Non riusciamo a farci un quadro completo della situazione e l’incertezza nei mesi precedenti la partenza ci tormenta insistentemente. In aggiunta nessun compagno si aggrega a noi e la cosa ci lascia un po’ perplessi. Tramite un’agenzia di Bergamo riusciamo ad organizzare il tutto: i voli aerei, i trasferimenti e il contatto con un’agente locale che dovrebbe occuparsi della permanenza nel deserto.
Arriva il giorno della partenza; lasciamo a malincuore le famiglie e riceviamo le solite raccomandazioni: mai come questa volta le sentiremo pesare sulle spalle…  Arriviamo a notte inoltrata ad Amman e ci basta il solo tragitto per raggiungere l’hotel per capire che siamo stati catapultati nel mondo arabo.
La mattina percorriamo la Highway – l’unica autostrada, se così si può definire un percorso parzialmente asfaltato, pieno di buche e senza ripari – in direzione Aqaba.



Verso il Wadi Rum

Facciamo una pausa in un bar, o meglio in un piccolo loculo a lato della strada dove ci servono del caffè bollentissimo in un bicchiere di vetro tempo fa trasparente: capiamo subito che cibo e igiene non saranno argomenti da valutare secondi i nostri parametri standard.
Arriviamo all’ingresso del parco dove ad accoglierci c’è Hasan, tipico beduino vestito di bianco con il kefiah che ci aiuta a caricare tutti le nostre masserizie sul pick-up. Con grande nostra sorpresa non si dirige verso il parco ma si inoltra in una pista puntando direttamente verso Nord, pieno deserto: inutile chiedere spiegazioni, perché non conosce alcuna parola di inglese. Iniziamo bene…cos’è un rapimento?
Dopo circa un’ora raggiungiamo il paese di Disi ove ci attende Fareed, il responsabile della agenzia locale,  tutto sudaticcio e con una parlantina inglese; conosce tutti e comanda tutti, in pratica un po’ il boss della zona. Ci chiede dove vogliamo andare e noi ovviamente rispondiamo che vogliamo arrampicare nel Wadi Rum, ma lui, un po’ insistentemente ci propone altri percorsi nel deserto e ci rassicura che Hasan è un’ottima guida beduina, conosce tutte le montagne della zona meglio di chiunque altro e saprà indicarci bellissimi percorsi di arrampicata. Arriva Hammer, il nostro giovane cuoco che parla un po’ di inglese; carichiamo materassi, stoviglie, vettovaglie, acqua e frigor con bibite sulla nostra jeep e siamo pronti per inoltrarci nel deserto.

Disi
Piano piano ci immergiamo in un ambiente vastissimo, isolato, ove le montagne sono via via sempre più grandi e maestose e si innalzano dalla sabbia come immense cattedrali. “Guarda quella parete, in confronto la Tofana è piccola”, “accidenti la Marmolada sfigura rispetto a quest’altra!”, e così via questi sono i nostri commenti, sempre riferiti alle nostre esperienze alpinistiche. La vastità dell’ambiente è in contrasto con la nostra piccola jeep che percorre la pista per raggiungere il posto dove accamperemo questa notte. E’ sotto una piccola rientranza della roccia, al riparo dal vento, che i nostri amici beduini predispongono il tutto per cucinare e dormire. Ne approfittiamo per fare quattro passi e assaggiare … la roccia. Ma questa è… sabbia pressata, che si presenta o in lastre compattissime, ove solo gli ardimentosi dell’aderenza potrebbero tentare di salire, oppure in fessure e appigli che si sgretolano semplicemente sotto la pressione delle scarpe. Ma come faremo? Per oggi gustiamoci la cena: riso, pollo e patate, e anche se varieranno in proporzione le quantità, il menù sarà sempre lo stesso per tutti i pasti. Ci infiliamo nel sacco a pelo, convinti che per oggi ne abbiamo viste abbastanza. La notte ci svegliamo di soprassalto, accendiamo la lampada e vediamo che un cane randagio fugge con un pollo ben stretto tra i denti. Conseguenze: riduzione delle scorte e cambio di letto per il nostro cuoco che è costretto a dormire sul pick-up accanto a tutte le provviste!


Il mattino dopo visitiamo un pozzo romano ove l’acqua viene addotta da un sistema di canali scavati nelle pareti limitrofe. Attraversiamo ancora intere vallate sconosciute e la nostra guida ci indica possibili percorsi sulle montagne. Sono le “beduin routes”, percorsi di accesso alle montagne che i locali utilizzano per trovare l’acqua o per recuperare gli animali. Non troviamo alcuna corrispondenza con la guida di Howard, e abbiamo timore ad affrontare come prima esperienza una salita non documentata, magari senza tracce di passaggio e con difficoltà di orientamento o roccia non buona…poveri illusi, scopriremo poi che anche le salite “documentate” non saranno poi molto diverse!
Dopo tanto girovagare arriviamo alle basi del Jebel Barrah ove decidiamo di salire una facile via, lunga circa 1500 metri di sviluppo, dove la prima parte si arrampica praticamente slegati su immense placche di II e III grado con qualche passo di IV.

Jebel Barrah
 La salita è segnalata da ometti e l’unico chiodo che troveremo è su una spaccatura: è uno spit poco affidabile che servirà per l’unica calata in doppia al rientro. Il caldo è soffocante, i piedi sono sofferenti, continuiamo a bere… raggiungiamo un albero in mezzo a questo deserto di placche: sembra realmente un’oasi a cinque stelle. Dopo una piccola pausa dobbiamo riprendere la via per raggiungere una cengia da dove si diramano due varianti d’uscita sulla cresta terminale: a metà del primo tiro troviamo un cordino intorno ad una pianta e pensiamo di essere sulla via più facile. Continuiamo a salire e ci troviamo in fondo ad un camino ove semplicemente accarezzando la roccia riusciamo a produrre una quantità di sabbia impressionante; sembra di essere immersi in un immenso castello di sabbia! Capiamo allora che il cordino era una calata di ritirata: di scendere non se ne parla, non esiste possibilità di posizionare alcun ancoraggio. Cerchiamo sulla placca verticale di sinistra una via d’uscita e ci avventuriamo su passaggi delicati, posizionando protezioni aleatorie e muovendoci con estrema cautela raggiungiamo una grande terrazza.


Jebel Barrah - variante Martina 2° tiro
Altri due tiri di corda, che a prima vista sembravano facili, si rivelano impegnativi e usciamo sulla cresta che porta in vetta.
Jebel Barrah - variante Martina
Ormai è tardi, la discesa è complessa ma fortunatamente facilitata da alcuni ometti che i beduini posizionano nei punti essenziali per individuare il percorso: senza questi preziosi riferimenti è impensabile orientarsi in questo dedalo di saliscendi, attraversamenti e passaggi assolutamente da non sottovalutare e, come abbiamo letto in una guida di Jacopelli, “da mettere in difficoltà anche il più navigato dolomitista”.
All’arrivo i nostri beduini ci aspettano all’ombra della jeep, pronti a rinfrescarci con il classico tè: hanno seguito da lontano la nostra salita e data la tarda ora erano un po’ preoccupati.  Non male per il primo giorno: abbiamo capito l’importanza dell’acqua, la precarietà della roccia, l’aleatorietà delle protezioni in arrampicata, le necessarie capacità di orientamento sia in salita che in discesa, e in più abbiamo aperto una nuova variante d’uscita di circa 200m (decideremo poi in seguito di chiamarla “variante Martina”, il nome della figlia di uno di noi).


Raggiungiamo un posto ove passare la notte, all’interno di un profondo canyon e al riparo dalla eventuale…pioggia ?!? Si, Hasan dice che stanotte pioverà, anche se a giudicare dalle piccole e alte nuvole nessuno di noi lo penserebbe. In effetti la notte qualche goccia scende e il vento imperversa buttando un po’ di scompiglio nel nostro accampamento.


La mattina seguente ci dirigiamo a sud verso una zona neppure segnata sulle nostre cartine. Vogliamo salire una via di difficoltà media per metterci un po’ alla prova. Arriviamo all’attacco di un’immensa bastionata e intuiamo la linea di salita tra immense placconate e diedri. I nostri amici beduini ci lasciano per andare dalla parte opposta della montagna ove li raggiungeremo terminata la via di discesa. Ci sentiamo sperduti e isolati, intorno a noi vediamo solo sabbia e roccia, intere catene montuose a perdita d’occhio e nessuna traccia di vita. Ci viene in mente quanto descritto nelle guide, ove si rimarca “a scanso di equivoci considerare inesistente qualsiasi forma di soccorso alpino”, e questo ci induce alla massima attenzione e concentrazione.

Jebel Burdah
La via si rivela bella e entusiasmante, non troviamo alcuna traccia di salita, nessun chiodo o cordino a segnare il passaggio.

Jebel Burdah - via Orange Sunshine - 4° tiro



Jebel Burdah - via Orange Sunshine - 6° tiro
La discesa, anch’essa lunga e tortuosa, ci obbligherà ad attraversare, uno alla volta, l’arco di pietra di Burdah, un’esile struttura naturale che consente il passaggio sopra un enorme canyon.

Il ponte di Burdah
Entriamo sempre più in confidenza con i nostri accompagnatori. Scopriamo che Hasan ha due mogli e tredici figli, ha accompagnato per due anni una troupe cinematografica italiana che ha girato un film nel deserto e nel quale ha fatto anche la comparsa: proprio per questa esperienza si ricorda qualche parola in italiano. Ci ha colpito tantissimo la sua genuina e semplice ospitalità, la sua disponibilità e il suo desiderio di farci conoscere “il suo deserto”, il bene più prezioso e più grande che lui possiede: bellissima era l’immagine di quando la mattina e la sera si allontanava per pregare. Tutte le mattine con voce forte e profonda ripete insistentemente il nome del cuoco per sollecitarlo ad alzarsi e preparare la colazione. Hammer, il cuoco per l’appunto, giovane e desideroso di conoscere l’Europa, continua a parlarci di una ragazza olandese che ha conosciuto durante un tour; con i pochi mezzi a disposizione si destreggia bene e ci prepara sempre pasti abbondanti e appetitosi, come da loro usanza consumati con le mani e seduti per terra. In particolare il pasticcio di ceci attira la nostra attenzione, tanto da indurci a comprarne una scatola da portare in Italia come succulenta specialità, per poi rivelarsi semplicemente…orribile. Ah la fame, che scherzi gioca!




Tra un tentativo ad una via in apparenza semplice (non siamo riusciti a superare un tiro dichiarato V+!) e qualche tiro a spit (si, esistono brevi vie su una placca facilmente raggiungibile…) termina la nostra prima parte della vacanza. Vogliamo trascorrere qualche giorno nel villaggio del Wadi Rum: Fareed, da buon faccendiere, riesce a contattare una guida locale di nome Talal e così una mattina in mezzo al deserto salutiamo con le lacrime agli occhi Hasan e Hammer e veniamo “consegnati” alla nuova guida.
Il villaggio del Wadi Rum è il principale centro abitato della zona. Qui il telefono funziona, si vede la televisione, c’è un distaccamento di polizia e c’è la famosa Rest House, ristorante ove posteriormente sono montate tende e dove è possibile campeggiare.

Rum Village - Resthouse
Lì dovremmo incontrare alpinisti a frotte ed invece ne vedremo ben pochi: una guida israeliana con cliente, tre francesi e due americani. Sicuramente il posto ha conosciuto ben altri splendori, probabilmente questo tipo di arrampicata troppo “avventurosa” per le nuove mode non attira più tanti climber come nel passato, tanto è che la Rest House quest’anno chiuderà i battenti.


Talal ha trent’anni, due mogli (anche se la prima non vive più con lui) e cinque figli, accompagna i clienti nel deserto e sulle montagne attraverso le vie “normali” di salita, ha una jeep vecchia circa venticinque anni. Ci mette a disposizione una parte della tenda beduina dove alloggia di giorno la sua famiglia (che però dorme in una struttura di mattoni). I prossimi giorni vivremo con loro, insieme a Robert Mandin, una guida di Chamonix che fu tra i primi esploratori della zona e che nelle stagioni intermedie vive qui in attesa di clienti. Riuscire dopo una settimana a lavarci un poco e a disporre di una specie di servizio igienico ci fa sentire un po’ meglio.


Riprendiamo ad arrampicare sulle pareti soprastanti il villaggio, ripetiamo una via dei fratelli Remy e la famosa Black Magic, lunga successione di fessure e diedri verticali tutti da attrezzare, con calate in doppia su chiodi ad U piantati in piccoli buchi appositamente creati e su clessidre da panico.

Jebel Rum - via Black Magic

Come ultima ciliegina scegliamo una salita su un pilastro nascosto, distante circa due ore di cammino. L’ambiente ricorda molto le nostri torri dolomitiche ma la roccia…decisamente no! Arrampichiamo su scagliette finissime, con la massima delicatezza, cercando di non fare incastrare la corda, oppure in fessure sabbiose ove i friend, mossi dal movimento della corda, si scavano un loro percorso. Arriviamo ad un terrazzino e con sommo stupore vediamo inciso sulla roccia “CAI BERGAMO – 1984”! In un attimo il nostro pensiero va ai nostri forti predecessori e un sorriso si stampa sui nostri volti: se siamo qui è anche grazie a loro.
Rum Doodle Pillar

Rum Doodle Pillar - via Rum Doodle


Rum Doodle Pillar - via Rum Doodle

La discesa si svolge tra mille difficoltà e imprevisti: le corde oramai rigide e ingrossate dalla sabbia penetrata nelle fibre rendono il recupero difficile e insidioso. Più volte si incastrano, la conformazione della roccia tagliente e a scaglie non favorisce le operazioni. Alla fine, per attrezzare le doppie, dobbiamo abbandonare circa 12 metri di cordino e dobbiamo tagliare e abbandonare anche una corda, pur di riuscire a scendere l’ultima doppia e, con un sospirato “evviva si torna a casa”, toccare finalmente terra.
Con le mani tutte tagliate e logorate e con la faccia cotta dal sole termina la parte arrampicatoria del viaggio: salutiamo Talal e lasciamo loro le nostre corde e scarpette ormai inutilizzabili.

Rum Village
Gli ultimi giorni della nostra vacanza li trascorriamo visitando i classici luoghi turistici: Petra la famosa città scavata nella roccia, il Mar Morto ove giochiamo a fare gli stupidi restando “sollevati” sulle acque salate, Madaba con le chiese e gli antichi mosaici, il Monte Nebo dove a Mosè fu consentito vedere la terra promessa prima di morire, Amman la capitale con forti contrasti tra moderno e antico. Non sono mancate le pause culinarie, come l’interminabile cena ad Amman presso il famoso ristorante Kan Zaman, dove ci è difficile ricordare se più indigesti sono stati i pesantissimi cibi ingeriti o il concerto musicale terribilmente noioso, ma un viaggio in oriente è anche questo.

Petra - il Tesoro

Monte Nebo

Mar Nero
Tante le emozioni provate, tanta l’esperienza alpinistica acquisita, tanto…
Nelle nostre menti sono rimasti gli spazi immensi, la vastità del deserto interrotto da sontuose montagne: è il silenzio il vero padrone di questi territori, silenzio che ti induce a riflettere, a pensare ai tuoi cari che sono lontani, a te che sei immerso in questa vastità, alla tua vita quotidiana così distante e diversa da quella che abbiamo vissuto in quei giorni, a quello che ti riserverà il futuro (uno di noi presto diventerà papà). Ricordiamo le passeggiate serali, mentre aspettavamo che i nostri amici beduini preparavano la cena, i colori dei tramonti sulla roccia che sembrava si incendiasse, tanto diveniva rossa, e la brezza che si alzava leggera, i piccoli insetti che muovendosi frettolosamente lasciavano scie sulla sabbia, gli uccelli che svolazzavano e cantavano nei canyon: il tutto induce alla riflessione, ad aprire il cuore e la mente per ascoltare…il deserto che ti parla.

P.S. Emma, la bimba di Michele, è nata il 19 dicembre

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